venerdì 28 maggio 2010

BIENNALE DANZA 2010: “OSSIGENO”, PIEDI FASCIATI E “BELLE FIGURE”

«Oxygen», ossigeno dà il via alla Biennale Danza. Come da tradizione, ormai, il battesimo del Festival viene impartito dal suo direttore, Ismael Ivo, che apre il sipario con i giovani talenti dell’Arsenale. Ventidue giovani scelti e addestrati nel cuore della Biennale nel segno del contemporaneo. Pronti a tendere muscoli e carne in una drammaturgia di corpo e respiro. Bianco-velata, ondeggiante sulla musica rarefatta di Arvo Part (dal vivo, con l’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Maffeo Scarpis), a sequenze alternate. Un assaggio della giovane generazione di danzatori in crescita, più che un’opera vera e propria. Un preludio a quello che è invece il vero focus della Biennale 2010, concentrato sulla danza canadese (e sull’Australia nella seconda parte). Il primo artista canadese a scendere in palco, in realtà è cinese: Wen Wei Wang. Ma da anni risiede a Vancouver dove ha fondato la sua compagnia. Danza occidentalizzata la sua, con la quale ripescare tracce di memoria cinesi. “Unbound” si ispira alla crudele tradizione di fasciare i piedi delle bambine cinesi per impedirne la crescita. Il piede-bonsai concedeva un’andatura ondulata agli occhi degli astanti (e atroci dolori a coloro che ve ne erano state costrette). Wen Wei trasforma quell’immaginario in un catalogo di passerelle per umani - uomini e donne - intenti a scalare vertiginose scarpe rosse, che incedono nello spazio intrecciando relazioni incerte con l’altro. Districandosi in trii ambigui (coreograficamente molto ben costruiti) e assoli sgomenti. Troppo laccato per essere drammatico, “Unbound” si staglia nel buio con l’interessante mosaico di luci di James Proudfoot. Una selva di corpi dove non ci si perde d’emozione. Il secondo appuntamento con il Canada è con Les Grands Ballets Canadiens de Montréal.
VIDEO Compagnia di vetrina, e di gran lustro, è diretta con mano elegante dal macedone Gradimir Pankov, nel segno di un contemporaneo che sa già di classico. Per esempio, quando prende in prestito il repertorio di Jiri Kylian. “Bella figura”, ispirata all’armonia dell’arte italiana, accende la serata di squarci di bellezza mozzafiato. La coreografia risale al 1995 ma solo anagraficamente: è un fuoco di invenzioni coreografiche, un’allegria di scherzi di danza. Impeccabile nel disegno, musicalissima nella sua tessitura, piena di sorprese. Un capolavoro. Cade, invece, nell’irresistibile attrazione da capolavoro, il belga Stijn Celis, che firma una nuova (2009) versione de “Le Sacre du Printemps”. Da quando, nel lontano 1913, l’iconoclastico balletto di Nijinskij e la “barbarica” musica di Stravinsky sconvolsero le platee di Parigi, qualche coreografo si prende la briga di rivisitarlo. Celis ha buone doti, ma non ha un’ispirazione pari a quella di Mats Ek nel ri-creare una Giselle contemporanea, né la felice inventiva di Matthew Bourne e del suo “Lago dei cigni”. Così Celis resta solo offuscato dalla memoria dell’originale (e di versioni più forti ed efficaci), nonostante abbia il raro talento di amministrare le masse dei ballerini. Il suo “Sacre” ridimensiona un rito tribale e feroce a scossoni emotivi di ragazzi e ragazze. Riti del quotidiano, cerimonie di transito dal gruppo alla coppia, dall’individuo alla massa. Qualche freschezza, poco dramma.Svettante la compagnia, affiatata, piena di ottimi elementi, in grado di virare dal gesto apparentemente informale alla stilizzazione elegante. Una meraviglia.
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