mercoledì 20 gennaio 2010

PD, IL SENSO DELLA POLITICA
E LA CULTURA DELLA RISSA
Non si può assistere inerti al degrado del dibattito pubblico. Non è libertà di critica insinuare che Tizio sceglie un certo candidato perché il suo vero scopo è svendere un bene pubblico a un socio di affari. È degradante. E così per Caio: non gli si riconosce la dignità di dissentire. No. Si dice che sta tramando il sabotaggio del suo partito. E così tutto il resto. È diventato difficile lo sforzo di ripensare Craxi a 10 anni dalla morte non come un cinico ladro ma pacatamente, rispettosamente, come quel notevole uomo politico che egli fu (senza dimenticare naturalmente errori e colpe che non si possono cancellare). Si sono perse le misure. Qualcuno si fa il segno della croce davanti alla Bonino come se l’avversaria, la Polverini, fosse una suora. E come se la Regione Lazio dovesse decidere sul dogma della verginità della Madonna. Non parliamo di Tv e di giornali sempre più gridati.Io temo che dietro questa rissa continua non ci sia solo la crisi della politica, ma anche la frantumazione della società civile e il riflesso di una più generale crisi della morale pubblica. Dopotutto, anche il ritorno alla grande, e in forme ridicole e abnormi del personalismo italiano (l’uomo di Guicciardini) che cosa è se non la spia del fatto che la classe dirigente non riesce a pensare l’interesse generale? Si dirà che non è così, che sono in campo idee diverse. In parte è vero. Ma vengo così al punto. Anch’io ho idee diverse da altri. Il problema non è quello di tacerle. È di chiedersi se, al netto delle contrapposizioni personali, queste idee possono convivere nel Partito democratico. Sono inconciliabili? E lo sono al punto da mettere in crisi il prestigio e la forza elettorale del partito? Se è così, non illudiamoci, il Pd si sgretola. E se si sgretola, la situazione sfuggirà di mano e si andrà verso una nuova crisi di regime. Mi scuso, ma qualcuno deve pur porre una questione come questa. Non voglio fare prediche per le quali non ho alcun titolo. Credo però che la risposta alla cruciale domanda su come questo partito possa parlare con più forza e più prestigio al Paese (pur salvaguardando il pluralismo) dipende interamente dall’idea che abbiamo della situazione e del compito che sta davanti a noi. Chiedo: che cos’era se non una certa idea della situazione che consentiva al partigiano comunista di combattere al fianco dell’ufficiale monarchico? Eppure le loro idee erano molto diverse. Se non abbiamo perso la testa è in rapporto alla realtà del paese che si misurano le posizioni politiche.E allora la vera domanda è questa: che idea abbiamo della crisi della democrazia italiana? Questa è la questione delle questioni che condiziona tutto il nostro dibattito e l’avvenire del partito democratico. È chiaro che siamo di fronte alla paralisi del sistema politico costruito negli ultimi 15 anni dopo il collasso della prima Repubblica. Anche il “sultanato” di Berlusconi è al tramonto. Ma la crisi è tanto più grave e difficile perché si accompagna a un vero e proprio problema di “rifondazione” della politica e della sua capacità di garantire la libertà degli uomini di decidere del loro destino.Io penso che bisognerebbe parlare così alla gente. Di che cosa abbiamo paura? Di apparire troppo radicali? Ma la radicalità non sta in noi bensì nei problemi reali. È lo Stato unitario che si sta disarticolando, sono intere regioni del Mezzogiorno che si stanno consegnando ai poteri delle mafie. È quindi su cose come queste che si ridefiniscono le ragioni di un grande partito democratico. Sinistra, centrosinistra, centrismo sono parole vuote se le scelte non corrispondono alle grandi cose. E cosa contano gli uomini se il partito non prende posto nel cuore del conflitto moderno? Mi stupisco che persone tanto moderne non capiscano che quello delle alleanze non è un vecchio discorso che ci riporta indietro al passato. Si dimentica che l’evoluzione delle cose intensifica le interdipendenze, la complessità, moltiplica le informazioni, e quindi crea un mondo che non può sopravvivere se non alla condizione che gli uomini convivono tra loro e si facciano carico di nuove responsabilità collettive: ecco perché non possiamo più andare avanti da soli in nome di non so quale vocazione al comando.Cerco di essere più chiaro. Ha assolutamente ragione chi dice che il tempo di quello che si è chiamato lo Stato dei partiti è finito. Non si può più governare solo in nome di un blocco sociale. E, in più, governare significa dettare regole e arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici): il che comporta l’uso di agenzie e di strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Ma fallimentare si è rivelata l’idea che bastava mettere al posto dei vecchi partiti un “uomo solo al comando” riducendo a ben poco il ruolo dei parlamentari e la sovranità del Parlamento. È giusto non tornare indietro al pollaio delle mediazioni tra partiti e partitini. Condivido l’idea di un partito a “vocazione maggioritaria”. Ma basta il consenso elettorale raccolto attraverso i “media” da un capo più o meno carismatico? La società si disgrega se non c’è una forza che garantisce il “governo lungo” delle relazioni sociali, un organismo capace di mettere in campo un’agenda politica più vasta. La lotta politica comporta duri scontri, anche personali. Lo so, li ho vissuti e non mi scandalizzo. Ma il loro limite sta nel fatto che un fattore guida della comunità italiana è più che mai necessario. Il Pd esiste se esprime anche un ideale e se, al tempo stesso, si presenta come uno strumento radicato nella società capace di mobilitare forze, intelligenze, passioni.
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